
Carbonara Day, 6 aprile
In occasione del Carbonara Day, in calendario il 6 aprile, Coop Alleanza 3.0 ha intervistato Alberto Grandi professore associato di Storia del cibo all’Università di Parma, su questo piatto ormai entrato nella tradizione culinaria italiana, ma dalle origini dibattute e controverse. Tra gli highlights dell’intervista anticipiamo che la carbonara è un piatto romano…d’adozione e che la cucina italiana è un “ecosistema aperto”.
Insieme alla chiacchierata sulla carbonara con il professor Grandi, Coop Alleanza 3.0 racconta i trend di acquisto dei soci e consumatori inerenti agli ingredienti principali di questo piatto, dall’osservatorio dei suoi 350 negozi ubicati da Trieste a Lecce, passando per la via Emilia scendendo lungo la dorsale adriatica, e EasyCoop, il servizio di spesa online offerto dalla Cooperativa. I dati di Coop Alleanza 3.0 fanno seguito all’intervista.
Intervista ad Alberto Grandi professore associato di Storia del cibo all’Università di Parma
Quali sono le origini della carbonara? È un piatto romano?
Le origini specifiche sono ancora abbastanza fumose, però la sua storia nel complesso la conosciamo. Sappiamo che è una ricetta fortemente legata alla presenza delle truppe americane in Italia nel corso del secondo conflitto mondiale, che hanno fornito le materie prime, ovvero la pancetta e le uova, tendenzialmente in polvere. Penso a Luca Cesari che ha scritto che è un concept americano di ricetta nata in Italia, e che poi progressivamente, ma anche con una certa lentezza, gli italiani hanno fatto proprio. La localizzazione romana è sicuramente una delle tante possibili, nel tempo la carbonara si è fortemente caratterizzata e quindi adesso la pensiamo come esclusivamente romana, ma non è detto che lo sia. Infatti, le truppe americane in quel periodo erano dislocate un po’dappertutto nella Penisola e non solo a Roma.
Potremmo dire, semplificando, che la carbonara è un piatto d’adozione romana?
È una ricetta americana nata casualmente in Italia e quindi sì, è una è una ricetta d’adozione. D’altro canto, la sua americanità è un dato inconfutabile visto la prima ricetta viene pubblicata negli Stati Uniti prima che in Italia.
Come si spiega la sua assenza dai ricettari italiani fino praticamente alla metà degli anni ‘50? Alla luce di tutto ciò, come nasce l’attaccamento degli italiani alla carbonara?
L’assenza dai ricettari italiani si spiega col fatto che la ricetta non esisteva nel senso codificato in cui la pensiamo ormai abitualmente. Probabilmente esisteva questo tipo di pietanza di pasta cioè una pasta condita con la pancetta, uovo e formaggio ma non faceva parte del gusto degli italiani e gli italiani la “sposano”. Probabilmente anche perché era un piatto sostanzioso e nell’Italia affamata del dopoguerra è un dato molto rilevante. Dopodiché il vero problema è perché da queste premesse si è arrivati oggi a una sorta di religione della carbonara, per cui, come dico sempre, se un qualcuno ci mette la panna c’è un romano che si butta nel Tevere?
Come ha fatto questa ricetta a diventare così iconica e identitaria?
Lei che idea si è fatto?
L’idea è, secondo me è che è una ricetta molto facile da fare ma che al tempo stesso si presta a tante versioni particolari permettono ai chiamiamoli “gastonazionalisti” di sventolare il vessillo della vera carbonara. Però fino a non molto tempo fa era assolutamente fatta con la pancetta, tagliata a dadini, con l’uovo stracciato, per cui c’era una devozione, e non c’era assolutamente nessuna religione della carbo-crema.
Come è cambiata infatti la ricetta della carbonara?
Adesso, invece, deve essere fatta con il guanciale, tagliato julienne, con la carbo-crema, con il solo pecorino e guai a metterci qualunque altro formaggio. Questi elementi fanno parte secondo me di una deriva che ha colpito in particolare la carbonara, ma che in realtà si può applicare a tutta la cucina italiana, ormai diventata una sorta di totem intoccabile, dove chiunque può alzarsi e dire “Si fa così, si è sempre fatto così”. In questo modo però la tradizione diventa mitologia.
In cucina come si fa a tenere insieme i concetti di tradizione e contaminazione?
Dal mio punto di vista li teniamo insieme con la ricerca e con l’onestà intellettuale. Infatti, se ricerchiamo l’origine delle nostre ricette, scopri, come ha già scritto Massimo Montanari, che alla fine l’origine è sempre fuori, è sempre di qualcun altro. La cucina, per essere tradizionale, deve contaminarsi; nel momento in cui si cerca di cristallizzare, di mettere nel freezer e di ergere delle barriere uccidi la tradizione, perché se c’è un elemento tradizionale della cucina italiana è esattamente quello della contaminazione, l’apertura rispetto ad altre culture, altri gusti, altri sapori e altre ricette.
Cos’è che noi possiamo definire italiano in cucina?
Secondo me possiamo definire italiano, esattamente l’invenzione, la contaminazione. Questo è l’elemento forte della nostra identità e della nostra cucina. Poi c’è un altro tema importante che spesso viene dimenticato.
Quale?
Che la nostra cucina è facile, è tecnicamente semplice e questo è stato per molto tempo la maledizione della cucina italiana.
In che senso “facile”?
Questa deriva per cui tutto ha una sua dimensione scientifica e tecnicamente complessa, è una deriva molto recente e che è “figlia” dei mass media più che della nostra evoluzione gastronomica.
Quale è, partendo dal caso della carbonara, l’origine della cucina italiana per come oggi la conosciamo?
In realtà è figlia della grande emigrazione e poi del boom economico, perché senza queste due condizioni non ci sarebbe stata la ricchezza di ingredienti, che gli italiani hanno potuto sperimentare, e poi anche portare in giro per il mondo. Quello che dico sempre è che se non hai soldi, non puoi comprare gli ingredienti e non puoi fare da mangiare. Da questo punto di vista la cucina è funzione dell’economia.
Possiamo parlare della cucina italiana come ecosistema aperto.
Assolutamente sì, tanto è vero che insieme a Daniele Soffiati, ho scritto “La cucina italiana non esiste”. Dico che non esiste la cucina italiana, ma esiste la cucina degli italiani che in giro per il mondo incrociano e conoscono nuovi elementi culinari e poi qualcosa torna indietro. Qualcos’altro rimane, sviluppando, nella cucina italiana, linee evolutive diverse, partendo magari dagli stessi punti di partenza, ma con processi diversi. Con un approccio culturale aperto, non c’è in realtà nessun motivo vero per considerare la cucina
italiana che si pratica in Italia più originale della cucina italiana che si pratica in Brasile o negli Stati Uniti o in Germania, dai nostri connazionali che vivono lì.